4.4.05

OS GESTOS IMPREVISÍVEIS DE KAROL, O RESTAURADOR



O Público passou a pedir-nos uma assinatura para a versão "online". Faz muito bem. Na edição impressa, no entanto, publicou-se um texto magnífico - o melhor que li sobre o assunto até hoje - sobre João Paulo II da autoria do escritor Claudio Magris. Foi editado originariamente no Corriere della Sera, mais magnânimo nestas coisas da "web". Porventura envergonhado pela versão que ofereceu aos seus leitores - cheia de erros ortográficos e de imprecisões -, o Público poupou os seus novos assinantes a esta miséria. Como "quem não tem cão, caça com gato", aqui deixo a versão original para quem a puder e souber ler na bela língua de "músicos e de traidores", os termos de Flaubert para os "italianos", no seu Dictionnaire des Idées Reçues.

Il restauratore ribelle


I gesti imprevedibili di Karol il restauratore

Un Papa, ha scritto Stefano Jacomuzzi nelle «Storie dell’ultimo giorno», non muore mai solo. È circondato da alti dignitari e anonimi servitori della Chiesa, è seguito da innumerevoli telecamere; anche l’ultimo dettaglio della sua fragilità terrena, il difficile respiro o il sudore, è sotto gli occhi di tutto il mondo. Forse un Papa non è mai veramente Papa come nel suo agonizzare e morire, quando subisce «il grande soffrire e la soggezione del male, inevitabili come il respiro», scriveva Alberto Cavallari tempo fa, in un’occasione in cui si temeva per la vita di Giovanni Paolo II.
Se il Papa è il vicario di Cristo, di Dio che si è spogliato di ogni potenza e si è calato nell’estremo della debolezza e dell’angoscia umana—sino a invocare per un istante, nel Getsemani, che non si compia la Passione—ilmomento in cui un Papa rappresenta Cristo con maggior verità è il momento in cui anch’egli è più assoggettato a questa debolezza. Pure per un Papa, dunque, il trapasso è il momento più universale, quello in cui ogni uomo incarna tutti gli uomini e muore nel suo segreto, nella sua capacità o incapacità di affrontare la morte, di farne il compimento e non solo la brusca e casuale interruzione della vita.
Anche un Papa, morendo, cade in quell’abisso imperscrutabile in cui si mescolano il niente e l’assoluto: anche a lui non resta che ripetere — come chiunque altro e senza capirne di più — le due invocazioni apparentemente contraddittorie di Cristo sulla Croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» e «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito».
L’attenzione spettacolare peraltro si addice a Giovanni Paolo II; egli è stato una singolare simbiosi di tradizionalismo vecchio stampo, senso sacrale della vita e istintiva familiarità con la società mediatica più secolarizzata, con i suoi strumenti e i suoi riti, che egli ha usato e padroneggiato sapientemente e, talora, con spregiudicata disinvoltura. Allo stesso modo univa una dimensione fortemente provinciale, con i suoi robusti pregi e i suoi angusti limiti, a una visione mondiale dei grandi processi storici e politici. Una sua indubbia virtù, sottolineata dal cardinal Achille Silvestrini, è stata il coraggio; quel coraggio che nasce dalla consapevole decisione di porre la propria persona al servizio di valori che la trascendono e dunque libera dalle miserie e dalle ansie personali.
Coraggio significa pure saper scegliere e dunque rinunciare, assumere posizioni nette e quindi care ad alcuni e invise ad altri, sacrificare quell’urbanità spesso vile che ci induce spesso — in nome della complessità e dell’ambiguità della vita — a voler essere d’accordo con tutti e graditi a tutti, a dire sì a una cosa e al suo contrario. Tale ruvidezza può talora risultare poco simpatica e Giovanni Paolo II non ha compiuto alcuno sforzo per accattivarsi le simpatie di chi lo trovava indigesto. Questo è un merito incontestabile, specie in un’epoca in cui ognuno cerca di piacere a tutti come un presentatore di quiz e il sorriso «cheese» viene scambiato per bontà, che invece è la capacità di riconoscere il male, di mostrargli i denti e di colpirlo.
Del resto è tale gagliarda ruvidezza che lo rendeva spesso irresistibilmente e bruscamente simpatico, come un compagno di gite in montagna. La sua fermezza nel ribadire l’ortodossia cattolica è stata essenziale per la Chiesa ed è meritoria, perché definire contenuti e confini di una fede — e di qualsiasi pensiero — permette di aderirvi o di non aderirvi a ragion veduta, anche se alla nostra pigrizia facilmente piace una concezione del mondo così vaga da poterla contemporaneamente accettare e rifiutare a seconda dei casi e dunque un cattolicesimo optional da supermarket, in cui ognuno possa prendere quello che gli pare.
Certamente il Papa, per la sua formazione culturale fortemente condizionata dalla sua storia, era — specie all’inizio — succube di una sensibilità anche grezzamente conservatrice che poteva confondere la verità di fede al di sopra del tempo con costumi e mentalità storicamente condizionate, come rivelano certe sue goffe e penose uscite sulle donne. Talvolta sembrava scambiare, con una teologia inadeguata, questioni di carattere disciplinare e quindi suscettibili nel tempo di soluzioni diverse — come il celibato ecclesiastico o il sacerdozio femminile— con verità sovratemporali della fede.
Ma, anche a questo punto di vista, ha saputo percorrere un grande cammino, superando certi suoi stessi atteggiamenti retrivi, celebrando la dignità femminile, chiedendo coraggiosamente perdono per le colpe della Chiesa e denunciandone le responsabilità nell’antisemitismo, bollando ingiustizie sociali, aprendosi al dialogo ecumenico e iniziando perfino un nuovo discorso su una possibile funzione diversa del primato del Papa. Il Pontefice restauratore ha anche profondamente innovato la Chiesa con un’opera di apertura culminata nella radicale, dettagliata richiesta di perdono non solo per le colpe dei singoli pur altissimi membri della Chiesa, ma per gravi colpe ed errori di quest’ultima stessa quale istituzione.
Questo gesto non è stato adeguatamente valutato nella sua grandezza, ed è stato ingenerosamente considerato insufficiente da chi, sino a quel momento, non si sognava nemmeno di chiederlo. È un gesto di forza che non ha messo in discussione neppure una virgola dell’ortodossia e ha anzi riaffermato la funzione guida della Chiesa; un Pontefice più debole e incerto non avrebbe potuto osarlo senza timore di scatenare un processo di dissoluzione. Deciso a colpire ciò che egli riteneva un errore, Giovanni Paolo II è stato talvolta privo di carità verso alcuni ecclesiastici che temeva potessero non allinearsi al suo progetto, come—ma è solo un esempio—verso il padre Arrupe, il Generale dell’Ordine dei Gesuiti.
Non poteva non condannare certi aspetti teorici della teologia della liberazione, ma avrebbe potuto e dovuto essere più vicino a tanti sacerdoti che, in situazioni disperate fra i dannati della terra, hanno testimoniato il Vangelo e l’amore e salvato l’anima della Chiesa e che egli ha lasciato soli, forse in nome di grette preoccupazioni politiche che facilmente inducono ad aridità di cuore. All’inizio ha avuto talora due pesi e due misure nel correggere le deviazioni «progressiste» o «reazionarie». Per essere buono, anche un Papa, che si definisce servo dei servi di Dio, ha bisogno della sua grazia.
Risoluto ed efficace nel combattere il comunismo. Giovanni Paolo II ha assistito a una progressiva scristianizzazione del mondo, di cui il capitalismo — una delle forze più rivoluzionarie e sradicanti della storia — è oggettivamente lo strumento, con la sua travolgente trasformazione della terra, della civiltà tradizionale e dei suoi valori. Per la prima volta dopo venti secoli, il Cristianesimo potrebbe essere assorbito e dissolto, volatilizzato, eliminato come le macerie da una ruspa. Questa consapevolezza ha gettato un’ombra di drammaticità dolente, quasi un senso d’impotenza, sul pontificato pur energico e trionfale di Giovanni Paolo II e ha dettato iniziative politiche contraddittorie, colpi a destra e a sinistra, apertura a Castro e appoggio a Tudjman, un anticapitalismo sferzante ma vago e dunque retorico, mosse infelici come l’iniziale simpatia verso la disgregazione della Jugoslavia presto foriera di tanto sangue e magnanime difese dell’umanità, mobilitazioni quasi demagogiche e sofferte testimonianze di altissimi valori che hanno aiutato credenti e non credenti a resistere agli idoli, ingerenze politiche indebite e regressioni a un invadente clericalismo per altri versi a lui estraneo, beatificazioni all’ingrosso e spettacolarità devozionali — come a Fatima—simili a karaoke, buone a riempire per qualche giorno le piazze ma non le chiese nella realtà quotidiana.
La dura condanna della guerra in Irak è nata non da generico pacifismo— che sarebbe peraltro contraddetto da altri casi in cui egli non ha decisamente bollato l’uso della forza— bensì da una drammatica consapevolezza della crisi mondiale e delle sue imprevedibili conseguenze, consapevolezza così irresponsabilmente assente in tanti leader politici. Nei suoi gesti capaci di spiazzare le attese c’era una vera grandezza. Èdifficile dire in che situazione egli lasci la Chiesa, forse oggi più debole di quanto si creda, dinanzi alle selvagge trasformazioni del mondo. Per il suo successore sarà assai arduo sia continuare sia mutare la sua linea. Alla fine della sua vita il Papa, sempre più logorato dalla malattiama incorreggibile nella sua affascinante forza e voglia di vivere, sembrava a volte un prigioniero, dai gesti pesanti e meccanici, quasi obbedienti a fila tenute da altri.
Ma nel viso irrigidito e spento si accendeva il guizzo di uno sguardo ribelle e malizioso, quasi una strizzatina d’occhi ai veri amici, l’indomita volontà di giocare qualche tiro imprevedibile che rimetteva a soqquadro la sua immagine consolidata; forse anche il desiderio di scappare una volta di più dalla Curia Romana e andare in giro per il mondo.

CLAUDIO MAGRIS

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